Negli ultimi mesi, grandi aziende come Amazon, Google, Meta, Harley-Davidson e Jack Daniel’s hanno ridotto o completamente smantellato le proprie divisioni dedicate alla sostenibilità, alla diversità e all’inclusione (DEI). Realtà che per anni avevano costruito la loro immagine su un posizionamento valoriale oggi sembrano fare marcia indietro, abbracciando un’identità più “tradizionale”, neutra, orientata al profitto immediato.
Ma è davvero una scelta vincente nel lungo periodo?
Secondo le neuroscienze, la psicologia cognitiva e le dinamiche di branding strategico, la risposta è tutt’altro che scontata.
Come sottolinea anche Francesco Oggiano, in uno dei suoi recenti approfondimenti, nell’epoca dell’iperconnessione e della consapevolezza diffusa, anche l’assenza di una presa di posizione è di per sé un messaggio. I consumatori — soprattutto le nuove generazioni — osservano con attenzione non solo ciò che un brand dice, ma anche ciò che evita di dire.
In questo scenario, le decisioni aziendali legate a temi etici e sociali diventano parte integrante della customer experience. Non si tratta più di iniziative di CSR (Corporate Social Responsibility) scollegate dal core business, ma di componenti decisive nel costruire — o distruggere — la relazione con il pubblico.
Quando un brand si allinea autenticamente ai valori profondi del proprio pubblico, si attivano nel cervello aree associate alla motivazione e alla valutazione soggettiva, come il nucleus accumbens e la corteccia prefrontale ventromediale. Lo dimostra, tra gli altri, uno studio di Falk et al., 2015 sul potere emotivo della comunicazione valoriale.
Questo significa che un messaggio coerente con i valori del consumatore non solo colpisce a livello razionale, ma genera una risposta affettiva profonda, capace di rafforzare il legame con il brand. Al contrario, quando un marchio si discosta dai valori promessi o mostra incoerenza, si attiva un meccanismo di dissonanza cognitiva. Il cervello percepisce un conflitto tra ciò che credeva e ciò che osserva, e la conseguenza è spesso il distacco emotivo.
Secondo Zaki et al. (2016), siamo biologicamente programmati per cercare coerenza nei comportamenti altrui. L’incoerenza viene letta come una forma di inganno, e la fiducia — una volta incrinata — è difficile da recuperare.
Questo ha implicazioni concrete per il branding. Quando un marchio costruisce la propria reputazione su inclusività, sostenibilità o giustizia sociale e poi abbandona questi principi, manda un segnale di inaffidabilità. Le conseguenze non si limitano alla percezione: secondo il report Kantar 2022, i brand percepiti come incoerenti registrano un calo fino al 37% sia nell’attrattività verso nuovi talenti, sia nelle intenzioni di acquisto da parte dei consumatori.
Inoltre, il cervello umano tende a consolidare più facilmente i ricordi negativi rispetto a quelli positivi. Ciò significa che gli effetti di una mossa percepita come “tradimento valoriale” possono persistere molto più a lungo di una campagna di comunicazione riuscita.
L’aspetto morale non è un accessorio nella scelta di un brand. È un criterio reale, che il cervello integra nella valutazione del valore percepito.
Uno studio pubblicato su Nature Human Behaviour dimostra che i consumatori attribuiscono più valore a prodotti percepiti come moralmente positivida Molly Crockett (2017) ha evidenziato come le emozioni morali influenzino le decisioni economiche e sociali. I prodotti e servizi percepiti come “moralmente positivi” tendono a essere preferiti, anche se non sono i più convenienti sul piano funzionale.
Questo spiega perché i brand che mantengono una coerenza valoriale sono spesso premiati, anche quando attraversano momenti complessi. La fiducia accumulata nel tempo diventa un capitale reputazionale che protegge e differenzia.
Esiste un altro meccanismo invisibile ma potente che può entrare in gioco quando i brand rinnegano i propri valori: la reattanza psicologica. Secondo la teoria di Brehm, 1966, quando le persone percepiscono che la loro libertà di scelta viene minacciata, reagiscono opponendosi.
Applicato al branding, questo significa che un cambiamento percepito come opportunistico o incoerente può attivare una risposta emotiva negativa: boicottaggi, disiscrizioni, proteste pubbliche.
È ciò che è accaduto, per esempio, a Bud Light e Target, che nel 2023 hanno perso fino al 30% delle vendite in alcuni segmenti di mercato a seguito di controversie legate a campagne valoriali giudicate ambigue o mal gestite.
Oggi le persone non vogliono solo acquistare prodotti o servizi. Vogliono scegliere brand in cui potersi riconoscere, che riflettano i propri valori e il proprio modo di vedere il mondo.
Un’azienda che rinnega questi valori per esigenze tattiche rischia di perdere qualcosa di molto più prezioso del fatturato: il senso di appartenenza del proprio pubblico. E senza appartenenza, non c’è fedeltà.
Le neuroscienze confermano ciò che molti professionisti della comunicazione già sentono a livello intuitivo: la coerenza valoriale è fondamentale per costruire (e mantenere) la fiducia.
Smantellare iniziative come la DEI non è solo una questione organizzativa o economica. È una scelta strategica ad alto rischio, che può compromettere la reputazione e la competitività di un brand, soprattutto nel medio-lungo termine.
Il futuro appartiene ai marchi capaci di trasformare i propri valori in azioni concrete, coerenti e durature.
Perché solo così si costruisce un posizionamento solido, rispettato… e ricordato.
Il mio blog è costantemente aggiornato con contenuti divulgativi di qualità con lo scopo di rendere accessibile le mie conoscenze su neuroscienze, branding e digital.
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